Le questioni di genere hanno acquisito un posto di primo piano nel discorso politico contemporaneo, argomenti in grado di dividere l’opinione pubblica e decisivi sul piatto della bilancia elettorale.
Quando omofobia e misoginia vengono sanciti da norme giuridiche, legittimando e incoraggiando l’odio e l’oppressione, uno Stato ha in mano un potente strumento di controllo.
Questa strategia è quella adottata dal governo del presidente ugandese Museveni, giunto ormai al suo trentesimo anno di mandato e determinato a restare, con la stesura e l’adozione negli ultimi anni delle leggi Anti-Omosessualità e Anti-Pornografia (detta anche “anti-minigonna”).
Il governo ugandese ha giustificato queste leggi restrittive con il tentativo di proteggere i propri cittadini e i propri valori dalle spinte neo-coloniali occidentali.
La propaganda governativa ha infatti diffuso l’idea che l’omosessualità in Uganda non esistesse prima dell’arrivo dei Paesi occidentali e che sia stata da essi introdotta come metodo di sottomissione, nascosto sotto la bandiera della difesa dei diritti umani. Nonostante questo sia storicamente falso, il governo ugandese ha intrapreso la battaglia alle tematiche LGBTI per difendere la “famiglia africana tradizionale”, forte dell’appoggio del mondo religioso.
La stessa provenienza occidentale hanno quegli abiti, come la minigonna, che darebbero origine alla pornografia e a comportamenti devianti dalle tradizioni africane: vietare alle donne di indossarli sarebbe quindi un altro tentativo di proteggere i valori africani della famiglia dalla dissacrante incursione occidentale.
Nonostante la parte relativa agli abiti occidentali sia stata cancellata dalla legge Anti-Pornografia e la legge Anti-Omosessualità sia stata annullata per un vizio di forma, il messaggio demonizzante in esse contenuto è stato recepito e assimilato dalla popolazione ugandese, facendo presa su una cultura di genere già fortemente stereotipata.
Nel Paese infatti prevalgono tradizioni patriarcali ed eteronormative secondo cui l’uomo capofamiglia deve essere il più forte, mentre la donna è subordinata. Le donne non possono possedere né ereditare terreni, esse coltivano i prodotti agricoli ma sono escluse dai guadagni della loro vendita. Se un uomo o una donna non rispetta la “tradizione” viene emarginato, rischiando l’innesco di un circolo di violenza, omofobia e stigmatizzazione.
Questo modello sembra essere più radicato nel Nord del Paese dove l’affermazione di un modello maschile sciovinista è conseguenza anche delle violenze subite durante la lunga guerra civile: deportazioni di massa, abusi sessuali e il rapimento di centinaia di bambini hanno compromesso il ruolo degli uomini come protettori della famiglia. Questa incapacità di essere all’altezza delle aspettative è stato ed è ancora motivo di umiliazione, che porta gli uomini a compensare esagerando altri aspetti del modello maschile, come il controllo sugli individui più deboli, come le donne e i giovani.
Per invalidare politicamente omofobia e misoginia in Uganda, come nel resto del mondo, bisogna quindi agire sulla cultura: sensibilizzare la popolazione sui diritti umani è il primo passo, cercando il coinvolgimento dei leader comunitari (religiosi e non religiosi) per prevenire nuove forme di violenza, cercare soluzioni alternative alle abitudini consolidate ed evitare che oppressive trame politiche trovino terreno fertile su cui attecchire.
E’ quindi fondamentale sostenere le associazioni locali di difensori dei diritti umani per poter porre le basi di un cambiamento profondo e duraturo, che porti ad una vera democrazia fatta di giustizia, inclusione sociale e partecipazione attiva di tutti i cittadini.